Interrare i residui colturali distrugge la fertilità dei terreni

non-interrare-residui-colturali

Questa è un’affermazione che è stata fatta da alcuni agricoltori nel corso di uno dei numerosi incontri tecnici itineranti organizzati presso i concessionari da Kverneland Group Italia: «Noi continuiamo ad arare, perché interrando i residui colturali si favorisce la loro degradazione e quindi aumenta la fertilità dei terreni».

È quasi superfluo dire che non è così. Il cosiddetto humus, indice di fertilità dei terreni, si produce grazie alla degradazione dei residui colturali e della sostanza organica presente sulla superficie dei terreni coltivati. Questa degradazione viene effettuata da miliardi di microrganismi, che costituiscono la fauna terricola e che producono l’humus. Se si ara, con il rovesciamento della fetta operata dall’aratro, i microrganismi vengono catapultati in profondità insieme ai residui colturali, provocando una forte dispersione degli uni e degli altri. Inoltre si favorisce una eccessiva ossigenazione del terreno che mineralizza la sostanza organica che non si può trasformare in humus.

Il terreno agrario ideale deve avere il 25% di spazi vuoti creati dai microrganismi e dalla radici delle colture e delle cover crops, il 25% di acqua e il 50% di terreno. La porosità del terreno che ne determina la sofficità e la lavorabilità deve dipendere soprattutto dall’attività delle colture e della fauna terricola e solo in parte da lavorazioni minime superficiali.

Altrettanto falsa è la convinzione che solo con l’aratura si favorisce la tesaurizzazione delle riserve idriche del suolo. Anzi, è vero esattamente il contrario: i residui colturali lasciati in superficie con il sodo o lo strip-till, oppure in parte leggermente interrati a 15 cm di profondità, impediscono sia l’evaporazione sia l’erosione eolica. Quando poi si rovesciano acquazzoni o nubifragi, la copertura anche parziale del terreno riduce la quantità di acqua che scorre in superficie e se l’acqua rimane più tempo in loco, può infiltrarsi per rimpinguare le falde.

Roberto Bartolini

Laureato in agraria all'Università di Bologna, giornalista professionista dal 1987, ha lavorato per 35 anni nel Gruppo Edagricole di Bologna, passando dal ruolo di redattore a quello direttore editoriale. Per oltre 15 anni è stato direttore responsabile del settimanale Terra e Vita. Oggi svolge attività di consulenza editoriale e agronomica, occupandosi di seminativi e di innovazione tecnologica.


2 commenti

  • Claudino

    31 Gennaio 2020 at 10:29 am

    …e si continua a dimenticare che l’ ITALIA non ha tutti terreni idonei a questo tipo di lavorazioni. Ci sono zone dove i terreni diventano duri come una lastra di cemento e …se l’acqua rimane più tempo in loco…le colture non nascono o ingialliscono e muoiono !! Caro Professore , almeno una volta lo specifichi in un articolo e vada un pò oltre le sponsorizzazioni !

    Rispondi

    • Luciano Lanza

      9 Febbraio 2020 at 1:37 pm

      Completamente d’accordo con Claudino sopratutto nell’ultima parte.

      Rispondi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo mail non sarà pubblicato I campi obbligatori sono contrassegnati


Chi siamo

Nato nel 2014, Il Nuovo Agricoltore è un portale informativo dedicato all’agricoltura, con un occhio di riguardo alle innovazioni tecnologiche. Il progetto è sviluppato da Kverneland Group Italia.


CONTATTACI