Per i nostri seminativi occorre una svolta e solo i contoterzisti possono darci una mano

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Quest’anno il mais in Italia ha preso l’ennesima bastonata, con un’ulteriore diminuzione delle superfici investite. Il motivo è sempre lo stesso: costi di produzione troppo elevati a fronte di un prezzo di mercato che solo nei giorni scorsi si è un po’ ripreso in valore. Così si è seminata molta più soia, che ha minori costi di produzione e che tutto sommato gode di un prezzo decente.

Per i frumenti, tenero e duro, la superficie è invece più o meno la stessa e in alcune aree in leggero aumento; mentre la medica e le altre foraggere sono decisamente in ripresa, e questa è una buona notizia almeno per due motivi: primo, perché si punta con maggiore determinazione su foraggi aziendali di alta qualità con benefici per i parametri qualitativi del latte; secondo, perché si fa un grande favore al suolo, aumentandone la fertilità soprattutto strutturale, che è fondamentale se si vuole poi risparmiare sulle lavorazioni applicando minima e sodo.

I seminativi non soffrono solo per i bassi prezzi di mercato

La situazione 2016 è più o meno questa, ma le preoccupazioni in vista dei nuovi raccolti non mancano, perché i difetti che si portano dietro i nostri seminativi sono sempre gli stessi da decenni: smisurato numero di varietà e di ibridi seminati rispetto alle reali necessità del mercato; mancanza di strutture moderne di stoccaggio capaci di valorizzare le produzioni di valore, separando adeguatamente le partite; eccessiva frammentazione dell’offerta e, in generale, scarsa qualità delle granelle.

Sappiamo bene che soprattutto in agricoltura vige la “regola del campanile”, cioè che ognuno ama andare per proprio conto, spesso facendo il contrario di quello che fa il vicino, ma allora non lamentiamoci se la redditività non c’è o è scarsa, e non prendiamo di mira sempre e soltanto i prezzi di mercato, perché su quelli bisogna rassegnarsi all’evidenza che nessuno, ma proprio nessuno, ci può far nulla. A meno che una nuova Pac più illuminata di quella attuale non preveda finalmente anche in Europa adeguati ammortizzatori a favore dei produttori quando i prezzi di mercato crollano.

Piani colturali condivisi e pianificazione delle semine nei territori

Quindi cosa si può fare?

A nostro avviso si deve cominciare a ragionare in termini di progettazione dei piani colturali e pianificazione delle semine territorio per territorio, cercando di valorizzare le produzioni di qualità collegandosi a chi ritira il prodotto, cioè alle filiere, che ci sono e che chiedono raccolti che oggi non siamo in grado di fornire. Tutto questo cercando di mettere insieme masse di granella di una certa consistenza e caratterizzata da una qualità omogenea.

Sarà fattibile questo semplice e ragionevole “piano industriale” applicato all’agricoltura nell’Italia dei campanili e dell’individualismo più sfrenato?

Ce la può fare solo una categoria di professionisti innovatori

L’unica strada che si intravede è quella che si tirino su le maniche ancora una volta i nostri bravi contoterzisti, almeno quelli più innovatori, con il sostegno delle loro organizzazioni che tra l’altro hanno cominciato a lavorare fianco a fianco (vedi il Cai con Unima e Confai), a differenza di quello che continuano a fare le organizzazioni professionali degli agricoltori.

Perché i contoterzisti? Semplice, perché ormai hanno in mano, territorio per territorio, aziende agricole importanti e medie in termini di ettarato e anche quelle di minori dimensioni, quindi in pratica gestiscono la maggior parte dei seminativi italiani.

Ma allora non potrebbero mettersi d’accordo, ragionando sempre territorio per territorio, per organizzare un po’ meglio la produzione e l’offerta, invece di farsi la guerra sui prezzi delle lavorazioni per strappare un cliente l’uno all’altro?

Se il contoterzista, con l’aiuto indispensabile della sua organizzazione sindacale, da prestatore di servizi agromeccanici si trasformasse un po’ in agronomo e un po’ in manager, cominciando a investire anche sulle strutture di lavorazione e stoccaggio magari condivise con altri colleghi del territorio, non sarebbe poi più facile dimostrare ai politici che è illogico che sia ancora considerato un artigiano e sia per questo escluso da tanti finanziamenti tra i quali i PSR?

Lasciamo al giudizio, come sempre prezioso, dei nostri lettori queste brevi considerazioni.

Roberto Bartolini

Laureato in agraria all'Università di Bologna, giornalista professionista dal 1987, ha lavorato per 35 anni nel Gruppo Edagricole di Bologna, passando dal ruolo di redattore a quello direttore editoriale. Per oltre 15 anni è stato direttore responsabile del settimanale Terra e Vita. Oggi svolge attività di consulenza editoriale e agronomica, occupandosi di seminativi e di innovazione tecnologica.


Un commento

  • Loris Groppo

    9 Giugno 2016 at 12:51 pm

    Prima osservazione. L’auspicio che ci possa essere un sussidio quando i prezzi crollano non fa certo bene ad un sistema che per sopravvivere (meglio, per tirare a campare) ha sempre puntato sul denaro piovuto dall’alto piuttosto che impegnarsi, sempre, continuamente, spasmodicamente ad investire in innovazione (tecnica e finanziaria).
    Seconda osservazione. Che deriva dalla prima. Lo stato comatoso dell’agricoltura italiana (salvo pochi casi) è proprio il frutto di anni di assistenzialismo e di immobilismo in termini di innovazione. Bisognerebbe dirlo chiaramente, almeno su quello che è il lato tecnico. Non abbiamo una cultura adeguata in termini di agricoltura conservativa ad esempio, e soprattutto siamo rimasti terribilmente indietro sull’innovazione genetica.
    Alla luce di tutto questo, quando per diminuire i costi bisogna contenere gli interventi in campo e puntare sulle soluzioni “smart”, non vedo come la spinta possa provenire dai terzisti…

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