“Si può coltivare mais rispettando ambiente e biodiversità: i cittadini devono saperlo”

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«Da un lato è stata data un’immagine di un’agricoltura industrializzata vittima delle multinazionali, altamente inquinante e distruttiva per l’ambiente che produce alimenti pieni di pesticidi dannosi per il consumatore; dall’altro di un’altra agricoltura “bucolica”, rispettosa dei ritmi della natura, senza chimica e biotecnologie, in grado di produrre alimenti sani per tutti. In pratica si è passato il messaggio che l’innovazione e le tecnologie in agricoltura non sono da applicare. Credo serva curiosità da parte dell’opinione pubblica per superare questo messaggio distorto e bisogna farlo perché dalla percezione dell’opinione pubblica partono le scelte politiche che regolano il settore»

È il messaggio che Marco Aurelio Pasti, noto agricoltore veneto ed ex presidente dell’Associazione italiana maiscoltori, ha lanciato nel corso di un’illuminante intervista uscita su Il Post a firma di Antonio Pascale, della quale riprendiamo alcuni passi molti significativi.

Il mais è una formidabile macchina verde

«Coltivo mais – dice Pasti – perché è una delle piante più efficienti nel convertire anidride carbonica e acqua in carboidrati, grazie all’energia solare: in 120 giorni, da maggio a settembre, un metro quadro di mais con 7 piante riesce a produrre mediamente in Pianura padana 1 kg di granella, e considerando l’intera pianta, circa 2 kg di sostanza organica: per fare questi 2 kg, sottrae dall’atmosfera quasi 3 kg di anidride carbonica».

Il mais restituisce l’acqua che consuma

Ogni metro quadro coltivato a mais produce 2 kg di sostanza organica e rilascia in atmosfera 2 kg abbondanti di ossigeno, oltre a 500 kg di acqua traspirata sotto forma di vapore. Questo vapore, sottolinea Pasti, poi forma nuvole e pioggia che torna sulla terra: si tratta di un ciclo, quindi dire che il mais consuma molta acqua, come ha fatto Slow Food all’Expo di Milano, è fuorviante. Diciamo piuttosto che il mais ricicla l’acqua come tutte le altre piante.

Il mais è una pianta che richiede elevate quantità di acqua, tuttavia ne rilascia in atmosfera 500 kg sotto forma di vapore.

La semina su sodo favorisce la biodiversità, ma è una tecnica da applicare con attenzione

«A livello di singolo campo – aggiunge Pasti nell’intervista al Post – credo che la tecnica colturale influenzi la biodiversità almeno quanto la coltura; ad esempio si è visto che la semina su sodo favorisce moltissimo l’entomofauna del terreno che, non più sconvolto dall’aratura, facilita il proliferare di insetti e lombrichi».

La semina su sodo «sembra facile – dice Pasti – ma è molto più complessa della semina su terreno lavorato, perché ho meno attrezzi per “correggere il tiro”. Devo gestire il residuo delle colture precedenti o delle colture di copertura: mi serve come pacciamatura per ridurre l’evaporazione e come nutrimento di microorganismi, ma devo evitare d’infilarla nel solco di semina, altrimenti il seme non va a contatto col terreno e non assorbe l’umidità necessaria. Devo evitare la compattazione, perché se piove si crea ristagno e mancanza di ossigeno alle radici, ma se fa secco si crea difficoltà di penetrazione delle radici; devo fare in modo che il concime arrivi alle radici più che ai microrganismi che decompongono il residuo e devo gestire la flora infestante senza lavorare il terreno utilizzando il glifosate».

Se vieteranno il glifosate, avremo più problemi

«Fare semina su sodo senza glifosate sembra molto difficile (anche se qualcuno ci sta provando), quindi se verrà vietato l’uso di questa molecola si rischia una perdita di biodiversità oltre che un peggioramento delle emissioni di gas climalteranti: il controllo della flora infestante dovrà esser fatto con più lavorazioni meccaniche, che da un lato aumentano il consumo di combustibili fossili e dall’altro aumentano l’ossidazione della sostanza organica del terreno», sostiene Pasti.

Perché il biotech garantisce più sostenibilità?

L’intervista tocca anche lo scottante tema del biotech: «Se potessimo usare il mais modificato geneticamente per resistere alla piralide – afferma Pasti – non dovremmo applicare gli insetticidi e avremmo una difesa migliore e meno micotossine nella granella. Ci guadagnerebbe l’ambiente, perché non applico insetticidi e anche perché il controllo della piralide sarebbe migliore e anziché produrre un chilo di granella per mq ne produrrei 1,1-1,3 a seconda del posto e dell’annata. Quindi per produrre un chilo di granella potrei usare dal 10 al 30% in meno di energia, concimi, prodotti fitosanitari acqua e ogni metro quadro potrebbe assorbire dal 10 al 30% in più di CO2 cioè da 3 a 9 etti in più. Su un milione e mezzo di ettari di mais, che coltivavamo 10 anni fa, avremmo potuto assorbire mediamente oltre 7 milioni di tonnellate in più di CO2. È vero che chi fa i conti dei cambiamenti climatici non tiene conto di questo perché dicono che è CO2 che torna in atmosfera nel giro di poco tempo, ma intanto non è più in atmosfera e poi potrei forse importare meno mais e spingere alla conversione in suoli agricoli meno ettari di foresta tropicale. Rispetto a 10 anni fa, oggi abbiamo dimezzato la produzione di mais in Italia e importiamo oltre metà del nostro fabbisogno».

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