Roberto Bartolini17 Maggio 20217min9790

Agricoltura, filiere e aiuti accoppiati necessitano del seme certificato

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Il “Fondo filiere”, varato lo scorso anno per favorire i contratti di coltivazione per mais, soia e altre leguminose da granella, sarà rifinanziato anche per il 2021. Il governo tuttavia ha dimenticato la promessa, fatta nel 2020, di rendere obbligatorio l’uso, per l’agricoltore che sottoscrive il contratto, di semente certificata escludendo quindi quella di provenienza aziendale.

Il fatto grave è che questa dimenticanza fa coppia con un’altra sciagurata decisione, contenuta nell’articolo 1 del decreto legislativo n. 20 del 2 febbraio 2021, relativo alle “Norme per la produzione a scopo di commercializzazione e la commercializzazione di prodotti sementieri”, che autorizza la pratica del libero scambio del seme da parte degli agricoltori, escludendola da ogni forma di controllo. E poco importa che il decreto abbia precisato che il libero scambio debba intendersi limitato al prodotto e non alle sementi, dato che per diverse specie il risultato della produzione (la granella) può essere utilizzato come seme da parte dell’agricoltore.

Sappiamo bene che l’argomento “seme autoprodotto in azienda” incontra il favore di gran parte dei nostri agricoltori che, pur di risparmiare una manciata di euro, non tengono conto dei rischi che corrono. Invece gli agricoltori più professionali, che usano regolarmente ogni anno seme certificato e garantito, concordano con i sei buoni motivi alla base di questa scelta che Assosementi ha indicato al Mipaaf in una recente comunicazione.

6 buoni motivi per usare il seme certificato

Il seme certificato è:

  1. Garantito: la purezza e la germinabilità sono certificate a norma di legge dai controlli eseguiti in ogni fase dal CREA-DC. L’impiego di seme certificato consente così di risparmiare fino al 30% di prodotto rispetto alla granella non certificata, grazie all’elevata purezza.
    Il superamento dei controlli in campo di gravi patologie quali carbone, carie, fusariosi ed elmintosporiosi contribuisce a ottenere coltivazioni e quindi anche alimenti più sani, diminuendo in vari casi la presenza di micotossine nelle derrate alimentari.
  2. Conveniente: la certificazione e la concia industriale della semente incidono solo per il 2% sul totale dei costi di produzione dei cereali a ettaro; un costo largamente compensato dalle maggiori produzioni che l’impiego di seme certificato è in grado di garantire;
  3. Legale: dall’uso di seme non certificato può derivare una serie di azioni illegali ai danni di tutto il settore. Tali attività violano sia la legge sementiera n. 1096/71 e successive modifiche, sia la normativa in materia fiscale per evasione di Iva e danneggiano seriamente tutta la filiera produttiva, soprattutto dal punto di vista qualitativo e sanitario.
  4. Tracciato: è l’indispensabile punto di partenza di tutte le produzioni di qualità.
  5. Professionale: offre la sicurezza di un prodotto selezionato, pulito, conciato da personale qualificato in stabilimenti attrezzati e utilizzando prodotti ad alta efficacia, riservati alla sola industria sementiera, confezionato in modo idoneo e pronto per la semina.
  6. Sostenibile: consente le migliori prestazioni per ogni varietà, permettendo di raggiungere concretamente obiettivi di sostenibilità ambientale delle produzioni, assicurando inoltre un risparmio complessivo nelle emissioni di CO2.

La ricerca genetica e il miglioramento vegetale vanno sostenuti

Inoltre non bisogna dimenticare che l’acquisto del seme dalle industrie significa per l’agricoltore garantirsi anche per il futuro quelle innovazioni genetiche che hanno permesso nei decenni di raggiungere livelli produttivi e qualitativi sempre maggiori. Infatti, se i sementieri non si sostengono con la vendita del seme, come possono affrontare i costi della ricerca genetica e del miglioramento vegetale?

Per quanto riguarda i frumenti, solo di recente le cose stanno migliorando grazie al successo crescente dei contratti di filiera per il grano duro e il tenero, che presuppongono l’uso esclusivo di determinate varietà e del seme certificato.

L’eclatante caso soia

Per esempio, nel caso della soia l’uso di seme aziendale è ancora molto diffuso ed è scandaloso, soprattutto nel filone delle filiere, dal momento che sappiamo come sia difficile assicurarsi, con il seme di casa, un prodotto sano e di qualità. Basti pensare alle difficoltà di essiccazione del seme e di una sua buona conservazione in azienda.

Se continuiamo a produrre seme indifferenziato partendo per di più da un seme aziendale, come possiamo pensare che i trasformatori possano preferire la qualità italiana e pagarla il giusto prezzo, piuttosto che andare a rifornirsi all’estero? Ma si sa: l’agricoltore, pur di sentirsi “il più furbo perché non dà i soldi ai sementieri”, è disposto a tutto!

Con le indicazioni dell’Unione europea a proposito di agricoltura sostenibile, innovativa, professionale e di qualità, che sono obiettivi obbligati per tutti almeno dal 2023 in poi, come è possibile permettere ancora oggi l’uso di seme autoriprodotto in azienda? Si tratta di una contraddizione che il governo, almeno con la prossima Pac, deve far sparire da tutte le normative, obbligando all’uso del seme certificato almeno coloro che godono degli aiuti accoppiati e che lavorano in filiera. Nella speranza che, nel frattempo, anche tutti gli altri si accorgano dei loro errori!

Roberto Bartolini

Laureato in agraria all'Università di Bologna, giornalista professionista dal 1987, ha lavorato per 35 anni nel Gruppo Edagricole di Bologna, passando dal ruolo di redattore a quello direttore editoriale. Per oltre 15 anni è stato direttore responsabile del settimanale Terra e Vita. Oggi svolge attività di consulenza editoriale e agronomica, occupandosi di seminativi e di innovazione tecnologica.


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