Risparmiare col seme aziendale? Una scelta errata e che fa male all’ambiente
Il 50% del seme di frumento duro e di erba medica impiegato in Italia non è certificato, cioè è riprodotto in azienda. Lo stesso capita al 40% del seme di soia e al 35% del seme di frumento tenero. Va un po’ meglio con la patata da seme e con il riso, dove l’impiego di semente non certificata, cioè autoriprodotta, si ferma al 30% del totale. I dati di Assosementi (l’associazione che riunisce le principali società sementiere) sono impietosi e confermano che molti agricoltori italiani sono ancora una volta preda di falsi dogmi e non valutano i molti rischi che comporta l’uso del seme riprodotto in azienda, selezionato in modo approssimativo o più frequentemente non lavorata.
Tutti i rischi che si corrono col seme autoprodotto
Ecco i principali fattori di rischio dei semi autoriprodotti:
- La granella si presenta con molte impurità e con germinabilità incerta.
- Il seme risulta inquinato da altre specie e da infestanti, il cui controllo diventa sempre più oneroso a discapito della sostenibilità ambientale.
- Sono presenti cariossidi affette da patogeni, come per esempio il Fusarium, che non si trovano nel seme certificato.
- Si producono partite di granella non omogenea e con il parziale decadimento delle sue caratteristiche qualitative.
- Si possono sovrastimare le dosi di semina, sbagliando l’investimento finale con conseguenze sulle rese.
Il risparmio? Appena il 2% del costo di produzione
Ma quanto risparmia l’agricoltore a utilizzare il seme autoprodotto anziché quello certificato e conciato industrialmente? Appena il 2% sul costo totale di produzione, che nel caso del frumento è l’equivalente al massimo di 100-150 kg di granella. Quindi si tratta di un risparmio davvero ridicolo!
I vantaggi del seme certificato
Invece, sono numerosi i vantaggi che ha l’agricoltore ad acquistare seme certificato e garantito dal costitutore. Ecco i principali:
- Maggiore resa per ettaro.
- Incremento dei parametri tecnologici (per il frumento: proteine, glutine, indice di giallo, peso elettrolitico, minore quantità di ceneri).
- Calo nel contenuto di micotossine, dato che in campo le società sementiere svolgono molti controlli.
- Maggiore redditività grazie alla remuneratività dei parametri tecnologici.
Il lavoro delle industrie sementiere
Spesso si dimentica o si sottovaluta l’importante lavoro svolto nei laboratori e in campo dalle società sementiere, che oltre a ricercare sempre nuove varietà, contribuiscono anche a mantenere alto il loro valore con la certificazione che assicura all’agricoltore:
- Identità e purezza varietale.
- Uniformità ed elevata capacità di germinazione.
- Assenza di semi di infestanti.
- Assenza di patogeni trasmissibili per seme.
- Tracciabilità e rintracciabilità delle produzioni.
Il mantenimento in purezza delle varietà da parte delle società sementiere garantisce nel tempo e con le successive moltiplicazioni l’identità varietale e la purezza genetica, mentre il ripetuto impiego di seme aziendale causa invece la degenerazione delle varietà coltivate a fronte di incroci spontanei e di inquinamenti inevitabili al momento della trebbiatura meccanica. Dunque l’agricoltore che continua a utilizzare seme autoriprodotto non solo fa un danno a se stesso, ma anche a tutti noi e all’ambiente dove opera. Si tratta di un fattore di cui tenere conto, soprattutto in fase di scrittura della nuova Pac: il seme certificato deve tornare obbligatorio nell’ambito della condizionalità.
2 commenti
Franco Brazzabeni
22 Marzo 2018 at 10:21 am
Quale presidente della sezione Cereali di Assosementi, esprimo pieno apprezzamento per l’articolo di Roberto Bartolini.
Le argomentazioni riportate sono oggettive, basate su riscontri scientifici ed economici e confermano in pieno quanto sostenuto da tempo dai sementieri italiani.
Aggiungo soltanto che l’uso di seme certificato è una risorsa fondamentale per tutta la filiera: sementieri, agricoltori, stoccatori, industria di trasformazione, consumatori. Tutte le categorie del sistema alimentare traggono solo vantaggi dal seme certificato, in termini di qualità, sanità, affidabilità e redditività.
L’agricoltura degli anni 2000 si basa sulle parole d’ordine qualità e tracciabilità, e senza il punto di partenza costituito dal seme certificato non possono sussistere né l’una né l’altra! Franco Brazzabeni
Tiziano
27 Marzo 2018 at 3:32 am
Si ma con questi fertilizzanti che poi ci mangiamo come la mettiamo?
Grazie