Roberto Bartolini21 Marzo 20184min18612

Risparmiare col seme aziendale? Una scelta errata e che fa male all’ambiente

seme-autoprodotto

Il 50% del seme di frumento duro e di erba medica impiegato in Italia non è certificato, cioè è riprodotto in azienda. Lo stesso capita al 40% del seme di soia e al 35% del seme di frumento tenero. Va un po’ meglio con la patata da seme e con il riso, dove l’impiego di semente non certificata, cioè autoriprodotta, si ferma al 30% del totale. I dati di Assosementi (l’associazione che riunisce le principali società sementiere) sono impietosi e confermano che molti agricoltori italiani sono ancora una volta preda di falsi dogmi e non valutano i molti rischi che comporta l’uso del seme riprodotto in azienda, selezionato in modo approssimativo o più frequentemente non lavorata.

Tutti i rischi che si corrono col seme autoprodotto

Ecco i principali fattori di rischio dei semi autoriprodotti:

  • La granella si presenta con molte impurità e con germinabilità incerta.
  • Il seme risulta inquinato da altre specie e da infestanti, il cui controllo diventa sempre più oneroso a discapito della sostenibilità ambientale.
  • Sono presenti cariossidi affette da patogeni, come per esempio il Fusarium, che non si trovano nel seme certificato.
  • Si producono partite di granella non omogenea e con il parziale decadimento delle sue caratteristiche qualitative.
  • Si possono sovrastimare le dosi di semina, sbagliando l’investimento finale con conseguenze sulle rese.

Il risparmio? Appena il 2% del costo di produzione

Ma quanto risparmia l’agricoltore a utilizzare il seme autoprodotto anziché quello certificato e conciato industrialmente? Appena il 2% sul costo totale di produzione, che nel caso del frumento è l’equivalente al massimo di 100-150 kg di granella. Quindi si tratta di un risparmio davvero ridicolo!

I vantaggi del seme certificato

Invece, sono numerosi i vantaggi che ha l’agricoltore ad acquistare seme certificato e garantito dal costitutore. Ecco i principali:

  • Maggiore resa per ettaro.
  • Incremento dei parametri tecnologici (per il frumento: proteine, glutine, indice di giallo, peso elettrolitico, minore quantità di ceneri).
  • Calo nel contenuto di micotossine, dato che in campo le società sementiere svolgono molti controlli.
  • Maggiore redditività grazie alla remuneratività dei parametri tecnologici.

Il lavoro delle industrie sementiere

Spesso si dimentica o si sottovaluta l’importante lavoro svolto nei laboratori e in campo dalle società sementiere, che oltre a ricercare sempre nuove varietà, contribuiscono anche a mantenere alto il loro valore con la certificazione che assicura all’agricoltore:

  • Identità e purezza varietale.
  • Uniformità ed elevata capacità di germinazione.
  • Assenza di semi di infestanti.
  • Assenza di patogeni trasmissibili per seme.
  • Tracciabilità e rintracciabilità delle produzioni.

Il mantenimento in purezza delle varietà da parte delle società sementiere garantisce nel tempo e con le successive moltiplicazioni l’identità varietale e la purezza genetica, mentre il ripetuto impiego di seme aziendale causa invece la degenerazione delle varietà coltivate a fronte di incroci spontanei e di inquinamenti inevitabili al momento della trebbiatura meccanica. Dunque l’agricoltore che continua a utilizzare seme autoriprodotto non solo fa un danno a se stesso, ma anche a tutti noi e all’ambiente dove opera. Si tratta di un fattore di cui tenere conto, soprattutto in fase di scrittura della nuova Pac: il seme certificato deve tornare obbligatorio nell’ambito della condizionalità.

Roberto Bartolini

Laureato in agraria all'Università di Bologna, giornalista professionista dal 1987, ha lavorato per 35 anni nel Gruppo Edagricole di Bologna, passando dal ruolo di redattore a quello direttore editoriale. Per oltre 15 anni è stato direttore responsabile del settimanale Terra e Vita. Oggi svolge attività di consulenza editoriale e agronomica, occupandosi di seminativi e di innovazione tecnologica.


2 commenti

  • Franco Brazzabeni

    22 Marzo 2018 at 10:21 am

    Quale presidente della sezione Cereali di Assosementi, esprimo pieno apprezzamento per l’articolo di Roberto Bartolini.
    Le argomentazioni riportate sono oggettive, basate su riscontri scientifici ed economici e confermano in pieno quanto sostenuto da tempo dai sementieri italiani.
    Aggiungo soltanto che l’uso di seme certificato è una risorsa fondamentale per tutta la filiera: sementieri, agricoltori, stoccatori, industria di trasformazione, consumatori. Tutte le categorie del sistema alimentare traggono solo vantaggi dal seme certificato, in termini di qualità, sanità, affidabilità e redditività.
    L’agricoltura degli anni 2000 si basa sulle parole d’ordine qualità e tracciabilità, e senza il punto di partenza costituito dal seme certificato non possono sussistere né l’una né l’altra! Franco Brazzabeni

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  • Tiziano

    27 Marzo 2018 at 3:32 am

    Si ma con questi fertilizzanti che poi ci mangiamo come la mettiamo?
    Grazie

    Rispondi

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