La Lombardia vuole sperimentare le colture NBT perché sono diverse dagli OGM

L’assessore all’agricoltura della Regione Lombardia Fabio Rolfi è il primo amministratore italiano ad avere compreso che le tecniche di miglioramento genetico NBT (New breeding technique), cioè cisgenesi e genome editing, non producono organismi OGM transgenici come li conosciamo. Quindi è assurdo far valere anche sul nostro territorio la sciagurata sentenza della Corte di giustizia europea del luglio 2018 che ha equiparato queste nuove straordinarie invenzioni agli OGM tradizionali, vietando qualsiasi sperimentazione in campo.
Rolfi ha chiesto ufficialmente al ministro Teresa Bellanova di approvare i protocolli necessari per poter avviare una sperimentazione in campo con queste innovazioni genetiche e ora si aspetta la risposta.
In altri paesi sono già in pieno campo
In Usa e Canada si coltivano da tempo nuove varietà di mais, soia, patata e pomodoro ottenute con NBT, una tecnica genetica estremamente precisa e veloce che interviene su porzioni di dna o trasferisce geni della stessa specie per indurre resistenze a parassiti e ad avversità climatiche, con una riduzione dei trattamenti da 12-13 a 2-3 all’anno. Si tratta dunque di una cosa ben diversa dalle tecniche di ingegneria genetica che hanno originato i vecchi OGM, dove i geni inseriti nel patrimonio genetico della pianta sono batterici.
Perché gli NBT sono diversi dagli OGM
Con il nuovo sistema NBT si modificano in maniera chirurgica le singole basi che compongono il dna, per esempio di un ibrido di mais, ottenendo delle variazioni positive come una resistenza specifica alla piralide o ai funghi responsabili delle micotossine o una maggiore resistenza naturale alla siccità. In definitiva si sostituisce una singola base del dna con un’altra dotata di resistenza, realizzando un nuovo ibrido che è indistinguibile da quelli che si generano spontaneamente in natura. Dunque si modifica la pianta senza portare materiale genetico esterno.
L’insano immobilismo genetico dell’Italia
Michele Morgante dell’Università di Udine critica a ragione «l’insana passione per l’immobilismo genetico dell’agricoltura italiana» che si origina da una visione distorta dell’agricoltura. «L’agricoltura – sostiene Morgante dalle colonne di Terra e Vita – è un sistema artificiale e non un ecosistema naturale e in quanto tale segue le leggi dell’evoluzione. Le colture cioè devono continuamente adattarsi a nuove condizioni ambientali e a nuovi nemici e ciò rende necessario un lavoro incessante di selezione di nuove varietà adatte ad affrontare l’ambiente in cui crescono».
Solo con l’innovazione genetica si è più sostenibili
Oggi che si parla tanto di agricoltura sostenibile, «la strada più promettente – dice Morgante – è proprio quella di ricorrere a tecnologie avanzate capaci di rinnovare il patrimonio varietale per renderlo adatto ad un’agricoltura che deve vincere tante sfide tra le quali quella dell’impronta ambientale».
Ma chi deve detenere i diritti di proprietà intellettuale delle novità genetiche? «Oggi i semi sono un concentrato di alta tecnologia – conclude Morgante – il risultato di processi di ricerca e di produzione molto complessi e sofisticati, quindi pensare che si possa ritornare al tempo in cui il miglioramento genetico veniva fatto dai singoli agricoltori è pura utopia. E’ come se in campo medico tornassimo per curarci ai preparati galenici».

Roberto Bartolini
Laureato in agraria all'Università di Bologna, giornalista professionista dal 1987, ha lavorato per 35 anni nel Gruppo Edagricole di Bologna, passando dal ruolo di redattore a quello direttore editoriale. Per oltre 15 anni è stato direttore responsabile del settimanale Terra e Vita. Oggi svolge attività di consulenza editoriale e agronomica, occupandosi di seminativi e di innovazione tecnologica.
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