L’aratore convinto deve imparare a rispettare sostanza organica e humus
Ogni tanto è necessario ricordare ai nostri agricoltori alcuni sani principi di agronomia che finiscono troppo spesso nel dimenticatoio. Una sciagura che è capitata soprattutto a tutti coloro che continuano a insistere con le lavorazioni tradizionali del terreno, numerose, invasive e dannose.
L’humus: cos’è e da dove nasce
Il nostro ragionamento parte dall’humus. L’humus è quella quota nobile di sostanza organica che assicura la stabilità ai terreni agricoli, rendendoli più vitali, dinamici e capaci di mobilizzare gli elementi nutritivi, di frenare la lisciviazione e di tesaurizzare le risorse idriche.
L’humus nasce dalla degradazione dei residui colturali e della sostanza organica presente sulla superficie del terreno, da parte dei microrganismi che trasformano questi materiali in sostanze umiche.
Se si fanno le arature, con il rovesciamento della fetta di terreno, non si fa altro che trasferire i microrganismi, che sono il motore di questa trasformazione, in profondità. Inoltre le lavorazioni, a causa della eccessiva ossigenazione del terreno, favoriscono la mineralizzazione della sostanza organica che così non si può più trasformare in humus.
Le funzioni dell’humus
Ma quali sono le funzioni dell’humus? Ci risponde l’agronomo Lorenzo Benvenuti: «L’humus interferisce positivamente con tutti i meccanismi regolatori fisici, chimici e biologici che si sviluppano nel terreno. Per esempio a livello fisico le sostanze chiamate polisaccaridi favoriscono la formazione di macro-aggregati all’interno del terreno per fargli raggiungere il giusto rapporto tra micro e macro pori, cioè una buona struttura».
«A livello chimico – prosegue Benvenuti – l’humus è la componente del terreno che presenta il più alto valore di scambio cationico. Tradotto significa che grazie all’humus si riduce la perdita in profondità degli elementi nutritivi, che rimangono così a disposizione delle radici delle piante. A livello biologico inoltre l’humus permette la vita di un’infinità di microrganismi, che sono importantissimi per mantenere alta la fertilità strutturale del terreno».
Aumenta la sostanza organica e il suolo produce di più
È ormai dimostrato che nei terreni dove non si ara più da anni e si eseguono semina su sodo o minima lavorazione, il tasso di sostanza organica, da valori minimi al di sotto dell’1%, in pochi anni si stabilizza su valori del 4-5% e anche di più. L’importante è praticare una rotazione ampia, lasciando sul terreno abbondanti residui colturali e ricorrendo all’uso costante delle cover crops per mantenere una copertura permanente del suolo tutto l’anno.
L’aratura non aumenta le riserve idriche
Chi continua ad arare sostiene che così facendo aumentano le riserve idriche. «Non è proprio così, anzi è il contrario», replica Benvenuti. «I residui colturali lasciati in superficie impediscono sia l’evaporazione sia l’erosione eolica. Quando poi si verificano piogge intense come accade di questi tempi, la copertura del terreno riduce notevolmente la quantità di acqua che scorre in superficie, ed è chiaro che se l’acqua rimane più tempo sul campo ha maggiori possibilità di infiltrarsi, arricchendo le riserve idriche. Infine i residui colturali e le cover crops, intercettando la radiazione solare, rallentano l’evaporazione».
L’aratura distrugge la vita del suolo (e non aumenta la sofficità)
Un’altra convinzione dell’agricoltore è che con le lavorazioni tradizionali si aumenti la sofficità del suolo, cioè la riduzione della sua densità. Ma anche questa è una falsa convinzione, come spiega ancora Benvenuti.
«Il suolo agrario ideale per le colture dovrebbe avere un 25% di spazio vuoto, un 25% di acqua e il restante 50% di terra. La microfauna tellurica, come lombrichi e altri, producono naturalmente macro e micropori, così come l’apparato radicale delle cover crops e delle colture principali, che lasciano nel terreno profondi canalicoli. Dunque sono le piante, se le lasciamo lavorare, a migliorare naturalmente la porosità del terreno senza bisogno che si intervenga con lavorazioni troppo invasive».
Minima lavorazione o sodo? Attenzione alle macchine
In definitiva, meglio praticare sodo o minima lavorazione? L’esperienza ormai ultraventennale insegna che quando ci sono le condizioni ideali, se si seminano cereali vernini, il sodo funziona bene su qualsiasi terreno, purché non sia costipato e si usino seminatrici ben costruite.
Per le colture estive di primo raccolto, se le condizioni sono ideali, si può optare per il sodo, altrimenti si deve scegliere la minima lavorazione superficiale, utilizzando però attrezzature idonee con dischi e ancore ben progettate, altrimenti il lavoro non riesce bene.
Successivamente sul terreno zolloso occorre utilizzare seminatrici di moderna concezione capaci di deporre con precisione il seme su una superficie disomogenea. E anche in questo caso non tutte le seminatrici sono uguali, quindi eventuali insuccessi non si devono imputare alla tecnica della minima lavorazione o del sodo, bensì a scelte operative sbagliate.
2 commenti
Luigi
27 Luglio 2019 at 4:00 pm
Ci vorrà del tempo prima che l ‘aratore convinto possa convincersi a cambiare. Sarebbe già molto se riuscisse ha fare qualche tentativo. Manca l’informazione anche da parte dei tecnici. Sono troppo legati alla scrivania e all’aria condizionata. Chi glielo fa fare ad andare contro corrente e andare in campagna con questo caldo a scordarsi con le abitudini. Sono3 anni che ho smesso di arare e quando,allora, chi si consiglio a un tecnico del servizio provinciale mi sconsiglio’ perché avendo un terreno col 63% di limo avrei avuto dei problemi e lui non aveva tempo da perdere. Alla faccia dell’innovazione.
Cordialmente Luigi
Delta S4
28 Luglio 2019 at 1:18 am
Da ragazzo mi dicevano che il terreno veniva arato prima dell estate. E le zolle cotte durante l estate con le prime acque si ammorbidivavo per poi essere arate e seminati i vari campi. Ora si dice l inverso. Qual è il modo giusto? Grazie