Il sodo migliora il terreno: i numeri
Tre anni di prove della Facoltà di agraria dell’università di Piacenza (Vincenzo Tabaglio e collaboratori) confermano che rispetto alla tradizionale aratura con rivoltamento della fetta, le lavorazioni conservative (sodo e minima lavorazione) portano benefici tangibili e misurabili ai nostri terreni.
In particolare si è visto che con il sodo in tre anni è aumentato del 10% il tasso di sostanza organica grazie alla non apertura del suolo e al mantenimento in superficie dei residui colturali. Anche la stabilità strutturale degli aggregati passa da un 33% del primo anno a un 37% del terzo anno, mentre la qualità biologica del suolo, con la presenza di microfauna (lombrichi e altri microrganismi) nei primi 10 cm, fa un balzo dal 51 ad oltre il 106% nel terzo anno, con un miglioramento del 108%.
Dunque il sodo, o non lavorazione, anno dopo anno dimostra di migliorare la qualità dei suoli, anche se occorre un periodo di adattamento alle nuove condizioni che può variare dai 3 ai 5 anni prima che il terreno, un tempo sempre arato, ritrovi un nuovo equilibrio produttivo. Per questo si giustificano gli incentivi dei PSR regionali per coloro che adottano le tecniche conservative di lavorazione.